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(se vuoi conoscere più in dettaglio la mia storia, continua a leggere più sotto)

In breve:

Per saperne di più sul mio lavoro di Escape Coach®, prosegui in base a ciò che più si avvicina alla tua situazione attuale:

Ho già un lavoro ma…

…odio la vita d’ufficio, gli orari fissi, la mancanza di tempo e libertà. Vorrei fare qualcosa di mio ma non saprei cosa e da dove cominciare. Ho paura di non essere in grado, di non avere l’età giusta o che potrebbero servirmi tanti soldi.
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Ho già un’idea o una mia attività ma…

… non so se è giusta per me, se funziona o come farla funzionare, non so come organizzarmi, come creare una strategia di marketing e comunicarla, come attrarre clienti e renderla profittevole.
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STORIA DI UNA ESCAPER CHE TI AIUTA A CREARE UN LAVORO CHE TI PIACE


Otto anni fa ho lasciato una promettente carriera e quello che a tutti gli effetti era un bel lavoro.
Ero dirigente in un’azienda televisiva, mi occupavo di marketing e di comunicazione, avevo un ufficio tutto per me, un ottimo stipendio e tutti i benefit annessi.
Eppure, da sempre, mi chiedevo il senso di tutto questo. Soprattutto del dovermi svegliare tutti i giorni alla stessa ora, passare il tempo in un cubicolo, dare retta a persone che non avevo scelto come compagni del maggior numero di ore in ogni mia giornata e fare cose che andavano fatte in un certo modo, con scadenze assurde o procedure senza significato. Riunioni interminabili, pranzi mal digeriti e un costante senso di spaesamento rispetto all’impatto che tutto questo poteva avere nel mondo.
In verità la mia prima fuga è stata all’età di 9 anni.
Nel 1983, molto prima che andasse di moda fuggire all’estero, mio padre mi ha portato per 4 anni in Nigeria. Da un paese della provincia di Salerno a Lagos, un importante shock culturale insomma. Lui non stava scappando da nulla in realtà, ma cercava solo la possibilità di poter comprare una casa in Italia. E così è stato, per fortuna.
Allora non mi ero resa ovviamente conto di cosa stesse accadendo, ricordo solo le mie zie che piangevano e le mamme delle mie compagne di scuola che mi guardavano in maniera strana, come se pensassero “povera creatura” e immaginassero per me un destino da “Flo, la piccola Robinson”.
Ché poi io da bambina amavo quel cartone animato (e Heidi, e Remi; pensandoci ora: tutti vagabondi) e anche se non vivevamo su un’isola deserta posso dire che gli anni in Africa mi hanno reso molto di ciò che sono ora.
Di sicuro mi hanno fatto da imprinting permettendomi di capire che si può vivere bene ovunque, anche in posto totalmente diverso e a migliaia di km da casa. E che la cosiddetta zona di comfort altro non è, il più delle volte, che una gabbia dorata.
Sono scappata a Londra, durante l’università. E poi a Milano, subito dopo l’università, perché mi ero caparbiamente iscritta alla prima facoltà italiana di Scienze della Comunicazione a Salerno, ma ovviamente il lavoro che volevo io era altrove.
Un master, un’agenzia di comunicazione, il contratto a tempo indeterminato a 24 anni. Un milione e seicentomila lire al mese, uno stipendio incredibile per l’epoca.
Ma Milano non era la mia città, così sono approdata a Roma. Con la sensazione di poter essere più al Centro, in tutti i sensi. E climaticamente più a mio agio, visti i precedenti.
E da lì la carriera con tutti i passaggi obbligati: coordinator, supervisor, manager, director.
A 38 anni avevo un ufficio tutto per me, una macchina troppo grande, ogni tipo di assicurazione e uno stipendio da dirigente. E un lavoro che, lo devo dire, era anche bello.
Eppure.
Eppure nella mia testa c’era sempre stato un tarlo. Un tarlo che macinava mille pensieri: alcuni banali ossia “ma devo per forza svegliarmi tutte le mattina alla stessa ora, imprecare nel traffico, uscire ché i negozi sono chiusi e andare a letto senza riuscire neanche a leggere due pagine di un libro perché sto già pensando a quello che devo fare il giorno dopo?”. Altri più di senso, del tipo “qual è il mio impatto nel mondo?”, “cosa sto creando?”, “sto davvero facendo ciò che mi piace fare?”.
E poi, come sempre accade, a un certo punto la vita ti chiama a rapporto.
Semina sul tuo cammino qualcosa che non sai gestire, come faresti abilmente ad esempio con un problema al lavoro. Nel mio caso un dolore immenso.
E ti ritrovi una mattina sulla Roma-Fiumicino, pronta a prendere l’ennesimo aereo per lavoro – alba a Fiumicino, tramonto a Linate – facendo tutti gesti in automatico. E dici no. Semplicemente. No.
Decidi che vuoi scegliere la tua vita. Che devi sceglierla. Perché sì, è proprio una sola.
Ripensi ai visi della tua infanzia, a quelle meravigliose donne africane dalle quali non hai mai sentito un lamento. E capisci tutto. Soprattutto che non potrai più tornare indietro.

Da allora, sono passati sette anni, sono successe più cose che in tutta la mia vita lavorativa precedente. I primi lavori da freelance, alcuni sottopagati, altri più che dignitosi.
Le offerte di lavoro, quelle irrinunciabili, che allontanano da te persone importanti della tua vita perché proprio non riescono a capirti. Ma va bene anche questo, tutto ha un senso.
L’incontro totalmente fortuito con quelli che sono ora i miei soci a Impact Hub Roma (uno spazio di co-working dedicato all’innovazione), prima donna tra tutti loro, che sono oggi come una famiglia, e sopportano ogni genere di idea bizzarra.
Poi ad un certo punto, la decisione di entrare in contatto con Escape the City, il progetto di due ragazzi che avevano lavori di tutto rispetto nella City londinese ma che si stavano ponendo le mie stesse domande. Li seguivo già da tempo, mentre lavoravo ancora in azienda, e mi ero resa conto che stavano davvero facendo qualcosa di rivoluzionario: dare la possibilità a professionisti di successo di trovare un lavoro maggiormente nelle proprie corde. Che non voleva dire necessariamente lavorare nel sociale, ma sentire che era possibile lavorare e guadagnare con i propri tempi e secondo le proprie inclinazioni, per creare una nuova generazione di lavoratori fuori dalla gabbia aziendale, pienamente soddisfatti.
Ho deciso di contattarli e di offrirmi come volontaria per portare i loro eventi Escape Monday in Italia: persone normali che raccontavano il loro cambiamento lavorativo, per ispirare e incoraggiare altri a fare lo stesso. Appena ho iniziato, mi sono resa subito conto di quante persone fossero nelle mie stesse condizioni di qualche anno prima e di quante altre avevano già fatto il salto dal lavoro in ufficio per fare della propria carriera un’estensione del proprio essere e non la fortuna di qualcun altro. Da lì, dopo essermi messa alla prova con qualche inconsapevole amico o conoscente che mi chiedeva consigli su come avevo fatto o come facevo a vivere senza uno stipendio fisso,  ho capito che potevo studiare e fare anch’io di questa mia missione un lavoro. Così sono diventata la prima Escape Coach italiana: un lavoro del quale sono immensamente orgogliosa, così come lo sono della comunità di persone che si sono riunite intorno agli eventi Escape e al gruppo privato Facebook in cui accolgo tutti i miei clienti e corsisti.
Oggi amo ancora occuparmi di comunicazione, organizzare eventi, scrivere, insegnare, pasticciare con le mie mani e dedicarmi al volontariato in un posto magico con donne incredibili.
Ma una cosa mi piace più di tutte: aiutare chi, come me, ha quel tarlo dentro. Cambiare lavoro, uscire dal cubicolo, dare un senso alla propria giornata.
Mi ci sono preparata, ho studiato, ho provato tutto sulla mia pelle. E oggi posso accompagnare altre persone verso una scelta di vita più nelle proprie corde. 
E non c’è niente di più bello di quando qualcuno mi dice: “Grazie, ce l’ho fatta. Ora sono io”.

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